(Relazione nel convegno “Cambiamenti Climatici e Migrazioni”, tenutosi a a Roma 17/10/2018, organizzato dall’Associazione dei Giuristi Democratici con il patrocinio del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma).
di: Elly Schlein, Parlamentare Europeo nella scorsa legislatura
Volevo ringraziare l’associazione Giuristi Democratici e l’Ordine degli Avvocati di Roma per aver organizzato questo importante confronto su un tema sul quale ci è capitato spesso di discutere, e anche di litigare un po’ – devo dire -, al Parlamento europeo in questi anni. Parlo di quello dei rifugiati climatici.
Non si è mai trovata – come sapete e come è stato detto – una definizione di rifugiati climatici chiara e condivisa a livello internazionale. I rifugiati climatici non sono una figura compresa nella Convenzione di Ginevra, che invece diciamo sottolinea l’elemento della persecuzione di quelle persone. Eppure è dal 1985 che si parla di rifugiati ambientali. La prima traccia si rinviene in un documento del Programma ambientale delle Nazioni Unite. Mi è piaciuto molto questo riferimento del Professor Pellegrino al suo lavoro sul tema del nesso di causalità, perché in questo senso c’è stata ad un certo punto una pronuncia molto importante della CEDU, quella sul caso “Budayeva ed altri contro Russia”, che è particolarmente importante perché proprio in quel caso i giudici di Strasburgo hanno riconosciuto la sussistenza di un nesso causale tra le omissioni delle autorità governative regionali e nazionali e, appunto, un disastro ambientale. Nel caso di specie si trattava delle cause di una frana; non si era risposto adeguatamente prima, ma neanche dopo, per evitare gli effetti devastanti sulla popolazione locale. La Corte di Strasburgo ha, quindi, già individuato degli obblighi positivi di adottare delle misure idonee a salvaguardare la vita delle persone che sono sottoposte alla sua giurisdizione. Lì c’è già uno spunto importante secondo me. Poi sappiamo che c’è stata la definizione dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (IOM), però sui migranti ambientali. Prima ho ascoltato e seguito con interesse l’intervento del dottor Mastrojeni che dice che non esistono, anche perché sarebbe insufficiente, voglio dire: la definizione di “migranti” può contenere anche un’ambiguità di fondo su una presunta volontarietà dello spostamento. Qui stiamo parlando, invece, di migrazioni forzate dovute alle più svariate ragioni: inondazioni, alluvioni, terremoti, altri tipi di calamità, la siccità o anche le condizioni del suolo che lasciano sempre meno persone in grado di costruirsi un’esistenza dignitosa laddove vivono e dove in molti casi probabilmente preferirebbero potere rimanere.
Dal 2008 – leggevo i dati venendo qui da voi – una media di 26,4 milioni di persone sono state costrette a lasciare le proprie case per questo tipo di fenomeni naturali estremi. È come se dal 2008 una persona al secondo fosse stata costretta a lasciare la propria casa.
Un dato piuttosto impressionante visto così. L’Italia, tra l’altro – e questo non lo sanno in molti – è il Paese europeo in cui c’è il maggior numero di persone costrette a lasciare la propria casa per eventi climatici estremi, trentuno su mille, siamo il Paese in cui questo numero è più alto in Europa.
Due anni fa sono stata a New York in rappresentanza del Parlamento Europeo al primo – e devo dire un po’ tardivo – summit sui grandi movimenti di rifugiati e di migranti, dove si decise di redigere i famosi Global Compact per gestire l’immigrazione. Devo dire che guardando la bozza del Patto Globale sull’asilo e l’Immigrazione – sapete che i governi dovranno negoziare a lungo fino a dicembre, ma la bozza è arrivata già a febbraio del 2018 – si è persa un’occasione straordinaria di fissare obblighi chiari anche sulle responsabilità che avranno i governi per contenere gli effetti del cambiamento climatico. Questo in quanto, come peraltro sostiene anche l’International Displacement Monitoring Centre, quella dei disastri naturali in generale è la causa numero uno di sfollamento.
A questo però non corrisponde – a quanto pare – una consapevolezza politica della gravità della situazione e dell’urgenza massima di intervenire con una risposta più adeguata; anzi, particolarmente in questo momento è in corso una gara a rimettere in discussione anche i fondamenti stessi del diritto d’asilo e della convenzione di Ginevra. Per cui, partendo da lì, c’è anche chi in questi anni ha chiesto di “riaprire” la Convenzione di Ginevra per inserire una definizione più specifica di “rifugiato climatico”.
Su questa proposta ci sono, però, due aspetti problematici: il primo è di carattere tecnico e cioè la Convenzione di Ginevra si basa su un impianto che riguarda l’esame del caso individuale, mentre quando si tratta di rifugiati climatici ci si riferisce a una causa che investe di solito una pluralità di persone, una comunità, e quindi già si presenta con uno strumento forse poco adeguato, a meno che non si pensi di aggiungere un protocollo a parte. L’altra ragione è più politica: avrei paura anch’io oggi a riaprire la discussione sulla convenzione di Ginevra, quando anche nel contesto della riforma del Sistema Europeo Comune D’asilo (CEAS) emerge chiaramente, da parte dei governi europei, una sorta di ossessione securitaria, come se l’unica questione fosse quella di bloccare i flussi prima che arrivino, e quindi di esternalizzare in qualche modo le nostre frontiere, le nostre responsabilità.
Vi faccio un esempio su tutti: mi ha molto preoccupato vedere nelle conclusioni delle ultime riunioni del Consiglio europeo qualche riferimento alla necessità di rivedere alcune di queste definizioni, perché adesso va di moda questo principio del Paese terzo sicuro, che ha una definizione squisitamente politica. Sapete che la Turchia è stata improvvisamente ritenuta, e non lo era mai stata prima da nessuno dei ventotto Stati membri, un Paese terzo sicuro, quando nel 2016 si è deciso di stringere un accordo anzi – perdonatemi – una dichiarazione con l’UE (quando si sono resi conto che secondo l’articolo 218 del TFUE, trattandosi di un accordo internazionale a tutti gli effetti, avrebbero dovuto sottoporlo allo scrutinio parlamentare, hanno deciso di cambiargli il nome – e dunque status giuridico – con le conseguenze anche giuridiche che avete ben letto anche nella sentenza della Corte). Per cui c’è una tendenza in questo senso a volere purtroppo ridiscutere i fondamenti e per questo ritengo preoccupante “riaprire” la Convenzione di Ginevra.
Però c’è anche qualche buona notizia: c’è un vuoto legislativo, sì, ma ci sono state alcune iniziative regionali che invece hanno fornito una risposta adeguata al fenomeno di chi è costretto a spostarsi per gli effetti climatici. Penso a un documento che è stato approvato tra diversi paesi africani nel 2009, penso alla cosiddetta iniziativa di Nansen, che è stata lanciata nel 2012 dalla Norvegia e dalla Svizzera proprio con l’obiettivo di cercare di trovare una cornice giuridica adeguata e forme di tutela adeguate. Certo, non vi posso nascondere che la volontà politica da parte dei governi mi sembra in questo momento mancare sempre di più. E sempre di più – se mi concedete – per le ragioni sbagliate; perché poi, lo si ricordava prima, qui non stiamo parlando di un’invasione, stiamo parlando – ed è questo forse l’elemento che ci ha più frustrato in questi anni di dibattito parlamentare nell’anno più caldo, nell’anno di maggiori richieste d’asilo in tutta l’Unione europea, di 1,3 milioni di richieste d’asilo. Sicuramente, se le immaginiamo tutte insieme, costituiscono un numero impressionante, ma che rispetto alla popolazione europea è appena lo 0,25%, visto che siamo un continente di 500 milioni di abitanti. È incredibile che 28 tra i governi più ricchi e potenti del pianeta non siano riusciti insieme a dare una risposta condivisa come quella che il Parlamento europeo in più occasioni ha già chiesto, non da ultimo – appunto la nostra proposta di riforma del Regolamento di Dublino.
Ora, senza dilungarmi però su questi aspetti, perché il tempo è breve, sapete anche che nel 1998 furono adottate alcune linee guida sugli sfollati interni sull’Internal Displacement che però non sono vincolanti e non sono state neanche ben implementate; eppure il Consiglio d’Europa ha già lasciato intendere che potrebbero essere prese a modello per non riguardare solamente chi si sposta internamente ai propri confini nazionali, ma anche chi si sposta al di fuori. Ora, se andiamo sul dato europeo, purtroppo, devo dire che l’acquisizione di una consapevolezza sulla necessità di affrontare il nodo dei rifugiati climatici è stata lenta – diciamo -, però positiva. Ricordo uno staff working document della Commissione Europea – uno di quei documenti che non hanno una valenza cogente, ma che indicano già le direttrici su cui la Commissione si vuole muovere – del 2013 proprio sul cambiamento climatico e le migrazioni, che negava l’esigenza di tutelare i rifugiati climatici con una piena protezione come quella prevista dalla Convenzione di Ginevra. Nello stesso documento però, curiosamente, si dice che nella Direttiva sulla protezione temporanea, quando si parla di afflussi massicci, si deve considerare con un’interpretazione estensiva, anche quelli dovuti a disastri climatici di varia natura. Più problematico sarebbe invece considerare quelle cause di lungo termine prodotte proprio dal cambiamento climatico e che non costituiscono un disastro come viene identificato ora; e sappiamo che qualsiasi forma di tutela che andiamo a predisporre deve coprire entrambi gli estremi e tutte le fattispecie in mezzo tra chi è colpito da un evento disastroso che lo lascia senza casa e chi – come si diceva prima – subisce gli effetti, ad esempio, della degradazione dei terreni. Ecco, la risposta deve essere strutturata in modo da poter dare una tutela adeguata a tutte queste fattispecie.
Ora, nonostante questo staff working document, nel 2015 c’è stato un fatto politicamente rilevante: nel suo discorso sullo Stato dell’Unione lo stesso presidente della Commissione Juncker ha dedicato una parte del suo intervento a questo tema, dicendo chiaramente che il cambiamento climatico è tra le ragioni profonde delle migrazioni e che quindi ci sarà una sfida legata proprio all’accoglienza dei rifugiati climatici e che bisogna agire in fretta. Quindi, evidentemente qualcosa è mutato anche all’interno delle istituzioni europee a livello di consapevolezza su quello che c’è da fare. Purtroppo, però, non è stato ancora sufficiente a permetterci di cambiare le regole. In particolare, mi riferisco alla riforma della “Direttiva qualifiche”, che nella proposta della Commissione diventa Regolamento; e questo – diciamo – se si mirasse ad una standardizzazione verso l’alto, sarebbe anche positivo. Io sono una convintissima federalista europea, quindi ogni strumento che va ad integrare ed armonizzare maggiormente le politiche, e quindi a costruire una vera politica dell’asilo europea, è a mio avviso da guardare con favore. Purtroppo, ahimè, in questo testo non si fa menzione dei rifugiati climatici. Noi ci abbiamo provato, come sapete come co-legislatori ci abbiamo lavorato e abbiamo già votato la nostra posizione in vista del negoziato con il Consiglio, e la brutta notizia è che purtroppo non siamo riusciti a modificare quel testo prevedendo appunto la figura del Rifugiato climatico. Ci abbiamo provato – dicendovela tutta -, non c’era una maggioranza perché nella famiglia popolare e nella famiglia liberale non hanno ritenuto di appoggiare gli emendamenti che come socialisti, verdi e sinistra europea sono stati presentati in questa direzione. Quindi purtroppo questo fotografa che c’è ancora un problema politico: così come ci sono negazionisti del cambiamento climatico, purtroppo abbiamo anche i negazionisti dei rifugiati climatici con cui dover fare i conti.
Ora, io non voglio prendere molto altro tempo perché di cose ne ho già dette diverse, ma lasciatemi invece concludere con una speranza, come hanno fatto altri prima di me. Noi abbiamo in questi anni lavorato molto – devo dire piuttosto nell’ombra – per garantire i diritti fondamentali e i diritti procedurali dei richiedenti asilo in generale, anche ovviamente di chi è costretto a fuggire per cause climatiche. Anche se non è stato detto molto al Parlamento europeo, tranne che su questo specifico caso, siamo riusciti a ottenere maggioranze strepitose; l’abbiamo fatto proprio sulla riforma di Dublino. Perché quando ci interroghiamo su come rispondere, lì è evidente che l’Unione europea debba – secondo i trattati agli articoli 8, 78 e 80 del TFUE, che chiedono solidarietà e una equa condivisione delle responsabilità tra tutti gli stati membri nella gestione dell’asilo – assicurare questa equa condivisione nei fatti.
In un’Unione in cui sei Stati membri su ventotto hanno per anni affrontato da soli l’80% delle richieste arrivate in tutta Europa questi principi sono letteralmente violati. Abbiamo provato – io ho scritto 145 emendamenti per modificare il regolamento di Dublino – a cambiare la logica punitiva verso i paesi di confine. Una logica così profondamente radicata nel testo che non sarebbe bastato cancellare il famoso, quanto ipocrita, criterio del primo Paese di accesso irregolare, ma bisognava invece trovare un’altra norma di chiusura del sistema. E l’abbiamo trovata sostituendo quel principio ipocrita – che ha lasciato le maggiori responsabilità sui Paesi come l’Italia e la Grecia in questi vent’anni – con un meccanismo di ricollocamento automatico e permanente che valorizzasse anzitutto i legami significativi dei richiedenti. È stata operata una certa estensione, per quanto possibile, della nozione di famiglia, accelerando con una procedura specifica i ricongiungimenti familiari per non vedere più quello che con l’amica Brambilla [avvocato ASGI, n.d.r.] abbiamo visto a Como, quando cinquecento persone dormivano davanti alla stazione, per la maggior parte minori. Minori che potevano chiedere asilo in Italia, ma che sceglievano di non farlo perché conoscono Dublino meglio di tanti di noi e sicuramente meglio di alcuni dei nostri decisori politici, che pare si siano accorti della sua esistenza solo due settimane fa, quando la Germania voleva mettere qualcuno su un volo per riportarli in Italia. Ecco, è lì che io dico: la soluzione per l’Italia non può che passare dalla solidarietà europea. Il fatto che noi siamo riusciti in due anni di delicato negoziato a far votare la riforma che vi ho appena descritto da due terzi del Parlamento europeo è un fattore di speranza che oggi io voglio consegnare a questa nostra discussione. Perché significa che almeno il Parlamento europeo ha consapevolezza del fatto che si tratta di una sfida comune europea a cui dobbiamo dare per forza risposte comuni europee.
Chiudo su un punto, per riconnettermi anche alle vostre riflessioni che ho con tanto interesse ascoltato. Noi dobbiamo lavorare anche sulle cause profonde però, lasciatemelo dire siccome siedo anche in Commissione sviluppo, dove mi occupo proprio di politiche della cooperazione allo sviluppo: dobbiamo avere politiche europee molto più coerenti, dobbiamo aprire vie legali e sicure per l’accesso a tutti i Paesi europei, perché altrimenti Italia e Grecia continueranno a essere l’unico punto d’accesso di un intero continente. Bisogna lavorare, però, sulle nostre politiche estere, migratorie, commerciali, perché purtroppo gli accordi commerciali che facciamo con i Paesi africani sono molto sbilanciati a vantaggio dei nostri interessi, perché quando ci sediamo a quel tavolo negoziale siamo ovviamente più forti. Ma poi mi sono occupata come relatrice per il Parlamento anche del tema della evasione ed elusione fiscale delle multinazionali nei paesi in via di sviluppo. Per darvi un numero: secondo un rapporto dell’Unione africana, i paesi africani hanno perso mille miliardi di dollari negli ultimi cinquant’anni, che è più o meno la stessa cifra che hanno ricevuto come aiuti allo sviluppo. Quindi è evidente che sentiremo chi dice “aiutiamoli a casa loro”, ma al contempo non si può dimenticare che le ragioni per cui quelle persone scappano sono molto più vicine a noi di quello che ci piace immaginare. Quindi su questo stiamo dando battaglia per avere politiche più coerenti.
Mi era stato chiesto – ma per ragioni di tempo non lo potrò fare – anche un piccolo commento sul decreto sicurezza. A parte che sono convinta che in quest’aula ci siano persone che ricordano bene gli effetti nefasti dei decreti sicurezza nel pacchetto Maroni del 2008, il nuovo decreto è solo propaganda, su questi temi specifici in realtà si andrà ad ingolfare un sistema che aveva bisogno di tutto fuorché di questo. Con l’idea anche di evitare il recepimento di una Direttiva europea, perché poi il reato di clandestinità era stato inserito anche per questo, per trovare un modo di evitare l’applicazione della Direttiva rimpatri e poi per fortuna anche su questo si è intervenuti in modo correttivo. Non ci siamo però liberati del reato, ci siamo ritrovati oggi con una retorica sicuramente vincente, ma è incredibile quanto quel decreto operi una straordinaria eterogenesi dei fini: cioè, un decreto che si chiama sicurezza attacca e cancella la protezione umanitaria e mette queste persone a rischio in mezzo alla strada e si tratta per lo più di casi vulnerabili. Ma la cosa forse più odiosa è proprio sullo SPRAR – e lo dico con un pensiero rivolto ovviamente alla comunità di Riace e al suo sindaco e a quello che sta succedendo – perché quello è un modello di accoglienza che vengono a studiarci da altri paesi europei, perché ha saputo coniugare il coinvolgimento dell’ente locale, che aiuta a ridurre le tensioni sociali con un’adeguata trasparenza sulla rendicontazione dei fondi e dei servizi adeguati, erogati da realtà che sono competenti per fornire questo tipo di servizi e agevolare l’inserimento sociale. Ecco quella buona accoglienza è un’accoglienza diffusa sul territorio in piccole soluzioni abitative. È incredibile che chi si riempie la bocca di sicurezza e fa tanta retorica sui famosi business in realtà dimostra, aggredendo in questo modo l’accoglienza diffusa – che è l’unica buona accoglienza – di essere forse egli stesso a voler fare dell’accoglienza un business.
Vi ringrazio davvero dell’ascolto.
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