Di recentissima pubblicazione una sentenza storica del Tribunale Civile di Roma, Dott.ssa Monica Velletti che ha riconosciuto il risarcimento del danno in favore di migranti richiedenti asilo illecitamente respinti e ricondotti in Libia da una nave militare italiana. La sentenza riconosce anche il diritto di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale mediante applicazione diretta dell’art. 10 comma 3 Cost. . Il Giudice ha ritenuto che il diritto di asilo di cui all’art. 10, comma 3, Cost. possa essere declinato nei termini di diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di essere ammesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e che in tale sede possa essere poi accertata la titolarità della situazione giuridica soggettiva in capo agli attori.
A beneficio del lettore e senza alcuna pretesa di completezza, si estraggono alcune parti della sentenza da me ritenute particolarmente rilevanti al fine di comprendere la portata della decisione.
Il fatto
In data 30 giungo 2009 la Marina Militare italiana ha posto in essere un’operazione di salvataggio di un gruppo di circa 80 migranti, procedendo a trasportarli su un’imbarcazione italiana, che ha fatto rotta verso la Libia; dagli atti prodotti delle Amministrazioni convenute emerge che il salvataggio è avvenuto a 26 miglia nautiche a sud di Lampedusa, in acque internazionali; in data 1 luglio 2009, i migranti presenti sulla nave italiana, che erano stati fotografati individualmente con l’assegnazione di un numero progressivo di identificazione, sono stati consegnati alle autorità libiche.
Ai fini della ricostruzione dei fatti assume rilevanza la circostanza che i testi omissis e omissis abbiano confermato quando narrato da parte attrice, esponendo in particolare che ai migranti sarebbe stato comunicato che l’imbarcazione era diretta verso l’Italia e che, una volta compreso che sarebbero stati respinti verso la Libia, gli stessi avrebbero manifestato la volontà di non tornare in tale Stato, affermando di essere dei rifugiati e di avere intenzione di chiedere la protezione internazionale. Durante la deposizione è stato, inoltre, confermato che i migranti sarebbero stati consegnati alle autorità libiche senza avere la possibilità di inoltrare domanda di protezione internazionale.
Tanto premesso, si rileva che le ricostruzioni compiute dagli attori e dalle Amministrazioni convenute divergono sulla qualificazione giuridica del fatto commesso ed in particolare sull’antigiuridicità della condotta posta in essere dall’autorità italiana, consistente, anche in virtù di espressa ammissione delle parti convenute, nel salvataggio dei naufraghi e nella loro successiva consegna alle autorità libiche.
La parte attrice qualifica la condotta contestata come contraria al principio di non refoulement e al diritto al riconoscimento della protezione internazionale, evidenziando che il suddetto contegno avrebbe avuto come conseguenza il rinvio di soggetti aventi diritto di proporre istanza di protezione internazionale verso un luogo non sicuro. A sostegno di tale assunto sono richiamate norme di carattere nazionale ed internazionale che vietano i respingimenti collettivi in cui non venga disposta alcuna valutazione delle circostanze personali e, di fatto, venga impedito l’accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. I riferimenti normativi richiamati sono, in particolare, la Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato del 1951, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Convenzione di Montego Bay del 1982, il Regolamento 33 della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare, il Protocollo della Convenzione Onu contro il crimine organizzato transnazionale, il Trattato dell’UE, il Regolamento CE n. 562/2006 (Codice delle frontiere), la Direttiva 2004/83/CE, recepita dal d.lgs. n. 25/2008 e il d.lgs. 286/1998 (art. 19, comma 1). A sostegno delle proprie pretese gli attori hanno richiamato, inoltre, la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 23 febbraio 2012, ricorso n. 27765/09, nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia.
Le Amministrazioni convenute hanno sostenuto, invece, la legittimità della condotta posta in essere, esponendo che la stessa sarebbe stata realizzata conformemente a quanto previsto dall’art. 1, comma 4, d.m. 14 luglio 2003 e dal Trattato di Amicizia, partenariato e collaborazione firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 tra l’Italia e la Libia. Secondo tale ricostruzione, pertanto, le autorità italiane si sarebbero limitate a dare esecuzione ad accordi raggiunti tra i due Stati, muovendosi all’interno del quadro normativo richiamato. Tanto premesso, si rileva che la fondatezza della pretesa azionata deve essere accertata alla luce del complesso delle norme vigenti al momento della commissione del fatto.
Sull’accordo Italia – Libia e sull’antigiuridicità della condotta
Occorre puntualizzare sin da subito che, pur ammettendo che un simile accordo preveda espressamente il respingimento in Libia dei migranti intercettati in alto mare (dato non desumibile dalla lettura del testo che non contiene alcun riferimento espresso ai respingimenti), la sua vigenza non poteva esonerare l’Italia dal rispettare gli obblighi assunti per la ratifica di strumenti internazionali. In altri termini, l’Italia non poteva ritenersi esente da responsabilità invocando obblighi eventualmente derivanti da accordi bilaterali stipulati con la Libia, da ritenersi recessivi rispetto alle fonti costituzionali e sovranazionali richiamate, primi tra tutte l’art. 10 della Costituzione e gli artt. 18 e 19 della Carta di Nizza. A ciò si aggiunga che il Trattato di Amicizia, partenariato e collaborazione firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 tra l’Italia e la Libia non solo non disciplina le operazioni di respingimento ma enuncia espressamente all’art. 1 il rispetto della legalità internazionale, mediante il rinvio agli obblighi derivanti dai principi e dalle norme del Diritto Internazionale universalmente riconosciuti e a quelli inerenti al rispetto dell’Ordinamento Internazionale. Pertanto, alla luce di tutte le considerazioni effettuate, si ritiene che la condotta delle autorità italiane sia stata posta in essere in contrasto con gli obblighi di diritto interno (di rango costituzionale) e internazionale gravanti sull’Italia e sia conseguentemente connotata dal crisma dell’antigiuridicità, con conseguente illegittimità della condotta contestata.
A conferma di tale assunto si rileva che nella richiamata sentenza del 23 febbraio 2012, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia al risarcimento del danno subito da un gruppo di migranti somali ed eritrei in conseguenza di una condotta che presenta elementi di similitudine con quella posta in essere nel caso di specie, trattandosi di un salvataggio avvenuto il 6 maggio 2009 a 35 miglia marine a sud di Lampedusa (nella zona di responsabilità SAR di Malta) ad opera della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera italiane, seguito da una consegna dei migranti alle autorità libiche realizzata senza che fosse stata offerta agli stessi la possibilità di formulare istanza di protezione internazionale.Accertata l’antigiuridicità della condotta posta in essere, si rende opportuno precisare che, come sopra detto, l’esistenza di rapporti realizzati da organizzazioni internazionali, pubblicati e diffusi all’epoca dei fatti, fa ritenere che le autorità italiane erano a conoscenza o quantomeno avrebbero potuto essere a conoscenza della circostanza che la Libia non poteva essere ritenuto un approdo sicuro.
Conseguentemente, si ritiene che la condotta contestata non sia incolpevole e sia stata sorretta dall’elemento soggettivo (dolo o colpa) richiesto dall’art. 2043 c.c. ai fini della configurazione della responsabilità da fatto illecito. Sul punto, occorre richiamare quanto al danno causalmente correlabile alla condotta accertata, i principi affermati dalla sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione 11 novembre 2008, n.26972, che ha ricondotto nell’ambito della categoria dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi contenuto economico, in base al combinato disposto degli artt.2043 e 2059 c.c., riconoscendo il diritto al risarcimento qualora il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, in quanto tali oggetto di tutela costituzionale, quali nel caso di specie il diritto a proporre domanda di protezione internazionale.
Sull’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale a seguito di un illecito commesso dall’autorità italiana – rimedi
Qualora, come nel caso di specie, un richiedente protezione internazionale non possa presentare la relativa domanda, in quanto non presente sul territorio italiano per circostanze allo stesso non imputabili ed anzi riconducibili ad un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, non appare conforme ai principi sopra richiamati limitare il diritto pieno e perfetto a richiedere protezione. Oltre a risultare irragionevole, non riconoscere il diritto indicato si porrebbe in contrasto con l’art. 10, comma 3, Cost. e si configurerebbe come un vuoto di tutela inammissibile, in un sistema che, a più livelli, riconosce e garantisce il diritto di asilo nelle diverse declinazioni. In altri termini, si ritiene che la qualificazione del diritto di asilo quale diritto soggettivo perfetto, rientrante nel catalogo dei diritti umani e di derivazione non solo costituzionale ma anche convenzionale imponga di individuare una forma di protezione in quei casi che, pur non rientrando nell’ambito applicativo della normativa nazionale di attuazione dell’art. 10 Cost., risultino meritevoli di tutela.
Si ritiene che in questo ambito possa espandersi il campo di applicazione della protezione internazionale mediante una diretta applicazione dell’art. 10, comma 3, Cost., volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione di principi costituzionali e della Carta dei Diritti dell’Unione Europea. Alla luce delle considerazioni effettuate, si ritiene che il diritto di asilo di cui all’art. 10, comma 3, Cost. possa essere declinato nei termini di diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di essere ammesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale (in questi termini anche Cass. Civ., sez. I, n. 25028/2005) e che in tale sede possa essere poi accertata la titolarità della situazione giuridica soggettiva in capo agli odierni attori.
Consiglio comunque una attenta lettura della sentenza.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Tribunale di Roma
PRIMA SEZIONE CIVILE
in composizione monocratica, in persona del Giudice unico dott.ssa Monica Velletti, ha emesso la seguente SENTENZA Nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 5615/2016 promossa da
omissis
tutti rappresentati e difesi, in virtù di procura in calce all’atto di citazione, dall’Avv. Cristina Laura Cecchini e dall’Avv. Salvatore Fachile ed elettivamente domiciliati presso il loro studio sito in Roma, piazza Mazzini n. 8; ATTORI
contro Ministero dell’Interno, Ministero della Difesa, Ministero degli Affari Esteri e Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona rispettivamente dei Ministri pro tempore e del Presidente del Consiglio, rappresentati e difesi ex lege dall’Avvocatura dello Stato e domiciliati presso i suoi Uffici siti in Roma, via dei Portoghesi n. 12; CONVENUTI
Conclusioni:
Per gli attori: “In via principale e nel merito: 1) accertare e dichiarare la responsabilità ex art. 2043 e segg delle Amministrazioni Convenute e/o dei funzionari o dirigenti preposti nella determinazione della condotta illecita e dei danni di cui è causa; 2) e per l’effetto sub 1) condannare a titolo di risarcimento in forma specifica gli odierni convenuti ciascuno per la propria competenza ad emanare tutti gli atti ritenuti necessari a consentire l’ingresso dei Sig.ri <omissis> al fine di inoltrare domanda di protezione internazionale; 3) e per l’effetto sub 1) condannare gli stessi in solido o ciascuno per la propria competenza, in favore dei Sig.ri <omissis> al risarcimento per equivalente in aggiunta a quello in forma specifica dell’integrale danno subito nella misura pari ad Euro 30.000 cadauno o nella misura maggiore o minore ritenuta di giustizia o secondo valutazione equitativa, oltre interessi e rivalutazione monetaria come per legge. Con vittoria di spese, diritti ed onorari del presente giudizio.”
Per le Amministrazioni convenute: “In via pregiudiziale, dichiarare il difetto di legittimazione attiva degli attori; in via preliminare gradata, dichiarare prescritto il diritto ex adverso invocato; nel merito rigettare la domanda risarcitoria perché infondata e comunque non provata Con vittoria di spese.”
Ragioni di fatto e di diritto della decisione
Con atto di citazione ritualmente notificato alle parti convenute, gli attori hanno rappresentato di essere fuggiti dal proprio Paese di origine, l’Eritrea, e di essere partiti, in data 27 giugno 2009, dalle coste libiche a bordo di un’imbarcazione, con l’obiettivo di arrivare in Italia e di vedere riconosciuto il proprio diritto alla protezione internazionale. Gli attori hanno esposto che il 30 giugno 2009, quando si trovavano a poche miglia da Lampedusa, si verificava l’avaria del motore, che lasciava il gruppo, composto da 89 persone, in balia delle onde fino all’arrivo di militari della Marina italiana che, giunti a bordo di un gommone, proveniente dalla Nave Orione, provvedevano ad attivare il salvataggio trasportando le persone a bordo dell’imbarcazione. Gli odierni attori hanno precisato di essere stati perquisiti dai militari a bordo della Nave Orione che procedevano a sequestrare gli effetti personali in loro possesso (tra cui foto, denaro e documenti), di essere stati fotografati, con attribuzione a ciascuno di un numero identificativo, e rassicurati sul fatto che sarebbero stati condotti sul territorio italiano dove avrebbero potuto chiedere la protezione internazionale. Secondo la ricostruzione dei fatti contenuta degli atti di parte attrice, al sopraggiungere delle prime ore del mattino dell’1 luglio 2009, i naufraghi presenti sull’imbarcazione si sarebbero accorti che la nave non stava andando in direzione dell’Italia ma, al contrario, era diretta verso la Libia; conseguentemente, il panico si sarebbe diffuso nel gruppo che avrebbe iniziato a protestare, suscitando la reazione del personale della Marina Militare italiana. In particolare, gli attori hanno esposto che quando la nave italiana veniva affiancata da un’imbarcazione libica l’agitazione sarebbe aumentata, molte persone avrebbero urlato ripentendo di aver bisogno di protezione internazionale e di voler chiedere asilo e domandando di non essere riconsegnati ai libici, deducendo che in Libia erano stati torturati, incarcerati e perseguitati al pari di quanto era accaduto nei loro Paesi di origine. Gli stessi hanno rappresentato che nonostante ciò erano stati consegnati alle autorità libiche e forzatamente trasportati a bordo della imbarcazione libica, dove venivano ammanettati con fascette di plastica. Gli attori hanno dedotto, pertanto, di essere stati respinti dall’autorità italiana in maniera collettiva e senza alcuna formalità e senza essere stati identificati, in violazione della normativa nazionale ed internazionale; di essere stati privati della possibilità di accedere alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale e di essere stati ricondotti in Libia dove sarebbero stati brutalmente ed indiscriminatamente picchiati per poi essere detenuti, per lunghi mesi, in prigione in condizioni inumane e degradanti. Infine, gli attori hanno esposto di aver provato a raggiungere l’Europa via terra, attraversando l’Egitto e il deserto del Sinai, per giungere, nel 2010, in Israele dove sarebbero stati arrestati e successivamente rilasciati senza alcuna garanzia, nonostante la loro domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, e dove attualmente subirebbero trattamenti inumani e degradanti ad opera dell’autorità israeliana e sarebbero sottoposti a gravi violazioni dei loro diritti fondamentali ed esposti al pericolo grave di refoulement. È stato da ultimo rappresentato che in data 25.6.2014 gli attori hanno inviato formale atto di diffida e messa in mora alle parti odierne convenute – rimasto privo di qualsiasi riscontro – con il quale hanno domandato il risarcimento dei danni subiti e l’attivazione per la rimozione dei medesimi danni, con richiesta di porre in essere le azioni necessarie a consentire l’ingresso nel territorio italiano al fine di inoltrare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale. Tanto premesso, gli attori hanno domandato: 1) in via preliminare, l’adozione di un provvedimento cautelare di autorizzazione all’ingresso sul territorio nazionale ovvero l’ordine alle Amministrazioni competenti di adottare ogni misura idonea a permettere tale ingresso; 2) nel merito, previo accertamento della responsabilità ex art. 2043 c.c. delle Amministrazioni convenute la condanna delle stesse al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di una somma pari a 30.000 euro ciascuno ovvero di una somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, e a titolo di risarcimento in forma specifica la condanna all’adozione degli atti ritenuti necessari a consentire l’ingresso degli attori in Italia al fine di inoltrare domanda di protezione internazionale. Si sono costituiti in giudizio la Presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dell’Interno, il Ministero della Difesa e il Ministero degli Affari Esteri, domandando il rigetto dell’istanza cautelare di cui all’art. 700 c.p.c. e delle ulteriori domande proposte dalla controparte. Le Amministrazioni convenute hanno esposto che in seguito al salvataggio degli 82 migranti (e non 89 come riportato nell’atto di citazione), avvenuto in acque internazionali (a ventisei miglia nautiche a Sud di Lampedusa), nessun migrante avrebbe manifestato l’intenzione di chiedere asilo o protezione internazionale, precisando che la condotta di consegna degli stessi alle autorità libiche sarebbe avvenuta in virtù di quanto previsto dall’art. 1, comma 4, d.m. 14 luglio 2003 e dal Trattato di Amicizia, partenariato e collaborazione firmato a Bengasi, il 30 agosto 2008, tra l’Italia e la Libia. Tanto premesso, le Amministrazioni convenute hanno dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza della domanda cautelare, e hanno eccepito la carenza di legittimazione attiva delle parti attrici e l’intervenuta prescrizione della domanda di risarcimento del danno e, infine, hanno domandato il rigetto nel merito delle domande avanzata dalla controparte in quanto infondate e comunque non provate. Con ordinanza depositata il 23.11.2016 la domanda cautelare è stata rigettata, rilevando il difetto dei presupposti del fumus boni iuris e del periculum in mora. In particolare, la carenza del primo requisito è derivata dall’impossibilità di affermare con la necessaria certezza, in quella fase del giudizio e prima di adeguata istruttoria, la corrispondenza soggettiva tra gli odierni attori e i migranti coinvolti nell’operazione del giugno-luglio 2009; la carenza del secondo requisito, invece, è derivata dalla circostanza che gli attori avessero agito a notevole distanza di tempo rispetto al momento in cui si sarebbero prodotti gli effetti dannosi della condotta contestata. L’ordinanza è stata confermata all’esito del reclamo proposto dagli attori.
Ammesse le istanze istruttorie sono stati escussi i testi: omissis, il quale ha dichiarato di essere partito da Tripoli insieme agli attori e di aver subito con gli stessi il rimpatrio in Libia; omissis, il quale ha dichiarato di essere partito da Tripoli insieme agli attori e di aver subito con gli stessi il rimpatrio in Libia; omissis, nata in Inghilterra il XXXXX, la quale ha dichiarato di aver conosciuto gli attori in Israele in ragione dell’attività svolta per Amnesty International. La causa è stata, inoltre, istruita mediante la produzione di documenti ad opera di entrambe le parti, e l’acquisizione di documenti all’esito di ordini di esibizione. La causa è stata quindi trattenuta in decisione, con concessione dei termini ex art. 190 c.c. e conseguente deposito di comparse conclusionali e repliche, nelle quali le parti hanno insistito per l’accoglimento delle domande e delle eccezioni già formulate.
Sulla legittimazione attiva degli attori
Preliminarmente, si rende necessario affrontare la questione relativa alla legittimazione attiva degli odierni attori, avente ad oggetto la corrispondenza soggettiva tra gli stessi e le persone coinvolte nell’operazione del giugno-luglio 2009. L’incertezza circa la suddetta corrispondenza soggettiva ha giustificato, nella prima fase del giudizio, il rigetto dell’istanza cautelare proposta ai sensi dell’art. 700 c.p.c. ed ha reso necessario, nel successivo iter processuale specifica prova per verificare la corrispondenza soggettiva tra gli attori e i migranti fotografati sulla Nave Orione. Nel corso dell’istruttoria gli attori hanno prodotto le fotografie riproducenti la loro immagine scattate in data 30 giugno 2009 da militari della Marina italiana, riproducenti gli stessi attori che tenevano in mano un numero identificativo (nell’operazione di identificazione avvenuta mediante assegnazione ai migranti di numeri progressivi) e le fotografie scattate in Israele presso gli uffici di Amnesty International, ritraenti gli odierni attori. Le deposizioni dei testi omissis si sono rilevate determinanti ai fini della formazione della prova circa l’identità degli odierni attori. In particolare, i primi testi, entrambi eritrei, dopo aver dichiarato di conoscere i fatti di causa in quanto coinvolti personalmente nelle operazioni di salvataggio e nel successivo rimpatrio in Libia, hanno affermato di riconoscere le persone ritratte nelle fotografie loro esibite, enunciandone il nome e precisando le ragioni di tale conoscenza. Gli stessi hanno rappresentato che le fotografie erano state scattate durante operazioni di identificazione effettuate dalla Marina Militare italiana sulla nave Orione (circostanza non contestata dalla parti convenute), e hanno riconosciuto se stessi e alcuni compagni di viaggio, tra i quali gli odierni attori, individuati con il rispettivo nominativo quando ai testi veniva mostrata la foto con il numero identificativo.
Un ulteriore elemento che conduce a concludere per la corrispondenza soggettiva tra gli attori e i migranti coinvolti nelle operazioni oggetto del presente giudizio è costituito dalla circostanza che i testi abbiano riportato dettagli e particolari del viaggio, del naufragio, delle operazioni di recupero e della successiva detenzione in Libia, nonché delle successive sorti degli attori e di altri migranti (alcuni dei quali deceduti nel tentativo di raggiungere l’Europa dopo essere fuggiti dalle prigioni libiche). Dettagli che fanno ritenere pienamente credibile la deposizione resa dai testi, presenti ai fatti, in quanto ritratti nelle fotografie scattate sulla Nave Orione, come constatato nel corso dell’escussione testimoniale.
Il terzo teste, omissis, ha affermato di riconoscere le persone ritratte nelle foto esibite, precisando di averle conosciute in ragione dell’attività svolta in Israele per Amnesty International. Anche la suddetta teste ha individuato con il rispettivo nominativo gli odierni attori nelle fotografie che li riproducevano sulla Nave Orione, nella quali non era presente il nominativo ma un solo numero identificativo. Alla luce delle risultanze istruttorie, si ritiene pertanto pienamente raggiunta la prova circa la corrispondenza tra gli attori e le persone coinvolte nelle operazioni di salvataggio e respingimento in Libia avvenute tra il 30 giugno e l’1 luglio 2009. Conseguentemente, l’eccezione di difetto di legittimazione ad agire, sollevata dalle Amministrazioni convenute, deve essere respinta.
Sulla prescrizione del diritto al risarcimento del danno
Le Amministrazioni convenute hanno sostenuto l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno, azionato in questa sede dalla parte attrice. È stato eccepito, in particolare, che “L’asserito fatto illecito, da cui sarebbe scaturita tale pretesa risarcitoria, è datato 30 giugno 2009: l’atto di citazione, invece, risale al 7 gennaio 2016. È del tutto evidente come siano decorsi più di cinque anni dalla data in cui si è verificato il fatto illecito: ai sensi dell’art. 2947 c.c. la pretesa risarcitoria deve quindi ritenersi ormai prescritta”. Gli attori hanno dedotto che l’invio di raccomandata A/R, in data 25.6.2014, pur essendo rimasto privo di riscontro, ha prodotto l’effetto di interrompere la prescrizione e che, in ogni caso, le Amministrazioni convenute, essendosi costituite oltre i termini previsti dall’art. 166 c.p.c., sono incorse nelle decadenze di cui all’art. 167 c.p.c.. In accoglimento di quanto dedotto da parte attrice, si rileva che le amministrazioni convenute si sono costituiti oltre il termine di cui all’art. 166 c.p.c., incorrendo pertanto nelle decadenze di cui all’art. 167 c.p.c., con conseguente preclusione per le stesse di sollevare eccezioni non rilevabili d’ufficio, tra le quali rientra per espressa previsione di legge la prescrizione (art. 2938 c.c.). Inoltre, alla luce di quanto dedotto e allegato dalle parti, si ritiene che la raccomandata A/R inviata in data 25.6.2014 costituisca atto idoneo ad interrompere la prescrizione ai sensi dell’art. 2943 c.c., con la conseguenza che la pretesa risarcitoria non potrebbe ritenersi prescritta.
Pertanto, per tutti i motivi esposti, l’eccezione sollevata dalle Amministrazioni convenute è tardiva e risulta in ogni caso inidonea a paralizzare la pretesa risarcitoria avanzata. Sul risarcimento del danno Al fine di verificare la fondatezza della pretesa risarcitoria avanzata dagli attori si rende opportuno analizzare i fatti nella loro materialità, per poi approfondire la questione relativa alla qualificazione giuridica da attribuire agli stessi.
Dalla narrazione contenuta negli atti di entrambe le parti, dai documenti dalle stesse prodotti (cfr. rapporti e comunicazioni con le autorità libiche) e dalle dichiarazioni dei testi, la dinamica dei fatti è stata accertata secondo quanto di seguito esposto: in data 30 giungo 2009 la Marina Militare italiana ha posto in essere un’operazione di salvataggio di un gruppo di circa 80 migranti, procedendo a trasportarli su un’imbarcazione italiana, che ha fatto rotta verso la Libia; dagli atti prodotti delle Amministrazioni convenute emerge che il salvataggio è avvenuto a 26 miglia nautiche a sud di Lampedusa, in acque internazionali; in data 1 luglio 2009, i migranti presenti sulla nave italiana, che erano stati fotografati individualmente con l’assegnazione di un numero progressivo di identificazione, sono stati consegnati alle autorità libiche.
Ai fini della ricostruzione dei fatti assume rilevanza la circostanza che i testi omissis e omissis abbiano confermato quando narrato da parte attrice, esponendo in particolare che ai migranti sarebbe stato comunicato che l’imbarcazione era diretta verso l’Italia e che, una volta compreso che sarebbero stati respinti verso la Libia, gli stessi avrebbero manifestato la volontà di non tornare in tale Stato, affermando di essere dei rifugiati e di avere intenzione di chiedere la protezione internazionale. Durante la deposizione è stato, inoltre, confermato che i migranti sarebbero stati consegnati alle autorità libiche senza avere la possibilità di inoltrare domanda di protezione internazionale.
Tanto premesso, si rileva che le ricostruzioni compiute dagli attori e dalle Amministrazioni convenute divergono sulla qualificazione giuridica del fatto commesso ed in particolare sull’antigiuridicità della condotta posta in essere dall’autorità italiana, consistente, anche in virtù di espressa ammissione delle parti convenute, nel salvataggio dei naufraghi e nella loro successiva consegna alle autorità libiche.
La parte attrice qualifica la condotta contestata come contraria al principio di non refoulement e al diritto al riconoscimento della protezione internazionale, evidenziando che il suddetto contegno avrebbe avuto come conseguenza il rinvio di soggetti aventi diritto di proporre istanza di protezione internazionale verso un luogo non sicuro. A sostegno di tale assunto sono richiamate norme di carattere nazionale ed internazionale che vietano i respingimenti collettivi in cui non venga disposta alcuna valutazione delle circostanze personali e, di fatto, venga impedito l’accesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale. I riferimenti normativi richiamati sono, in particolare, la Convenzione di Ginevra relativa allo status di rifugiato del 1951, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, la Convenzione Onu contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti, il Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Convenzione di Montego Bay del 1982, il Regolamento 33 della Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita in mare, il Protocollo della Convenzione Onu contro il crimine organizzato transnazionale, il Trattato dell’UE, il Regolamento CE n. 562/2006 (Codice delle frontiere), la Direttiva 2004/83/CE, recepita dal d.lgs. n. 25/2008 e il d.lgs. 286/1998 (art. 19, comma 1). A sostegno delle proprie pretese gli attori hanno richiamato, inoltre, la pronuncia della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo del 23 febbraio 2012, ricorso n. 27765/09, nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia.
Le Amministrazioni convenute hanno sostenuto, invece, la legittimità della condotta posta in essere, esponendo che la stessa sarebbe stata realizzata conformemente a quanto previsto dall’art. 1, comma 4, d.m. 14 luglio 2003 e dal Trattato di Amicizia, partenariato e collaborazione firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 tra l’Italia e la Libia. Secondo tale ricostruzione, pertanto, le autorità italiane si sarebbero limitate a dare esecuzione ad accordi raggiunti tra i due Stati, muovendosi all’interno del quadro normativo richiamato. Tanto premesso, si rileva che la fondatezza della pretesa azionata deve essere accertata alla luce del complesso delle norme vigenti al momento della commissione del fatto.
In primo luogo il riferimento è alla Convenzione di Ginevra relativa allo status dei rifugiati, il cui art. 33 enuncia il principio di non respingimento, disponendo che nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. Tale principio è stato definito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati – il quale vigila sull’applicazione della Convenzione di Ginevra ad opera degli Stati – un principio fondamentale che non ammette riserve, connesso tanto al diritto di chiedere asilo, a sua volta riconosciuto dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, quanto al divieto assoluto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, sancito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. In tale contesto normativo assume decisiva rilevanza l’art. 4 del Protocollo 4 addizionale alla CEDU, il quale dispone il divieto delle espulsioni collettive degli stranieri statuendo: “Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate”. Premesso quanto sopra esposto, deve comunque rilevarsi come fonti primarie di rango costituzionale garantiscano i diritti richiamati. In primo luogo l’art. 10 Cost. che riconosce il diritto di asilo dello straniero al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana (cfr. infra); e il diritto dell’Unione Europea, che ribadisce a diversi livelli i principi sanciti nelle fonti internazionali richiamate, sancendo all’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (parte integrante del Trattato dell’Unione Europea in forza del richiamo operato dall’art. 6) il principio di non respingimento, vietando espressamente le espulsioni collettive (Si riporta il testo dell’art. 19 richiamato “1.Le espulsioni collettive sono vietate. 2. Nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti”).
Al fine di comprendere la portata dei suddetti enunciati e l’ambito applicativo degli stessi, occorre fare riferimento alle interpretazioni adottate a livello internazionale e alle opzioni ermeneutiche accolte dalle Corti sovranazionali, evidenziando che le stesse sono state recepite dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e hanno costituito le premesse in virtù delle quali il giudice sovranazionale ha condannato lo Stato italiano in un cui caso che presenta convergenze fattuali con quanto oggetto del presente giudizio (caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia). A tal proposito si rileva che, secondo l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, il principio di non respingimento (art. 33 Convenzione di Ginevra) viene in rilievo ogniqualvolta uno Stato adotti una misura che possa sortire l’effetto di rinviare un richiedente asilo o un rifugiato verso le frontiere di un territorio in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate e in cui rischierebbe una persecuzione. Tra tali misure rientrano il repingimento alle frontiere, l’intercettazione e il respingimento indiretto, sia che si tratti di un individuo in cerca di asilo sia che si tratti di un afflusso massiccio (nota dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati sulla protezione internazionale del 13.9.2001). È, altresì, precisato che il principio risulta applicabile ai rifugiati indipendentemente dal riconoscimento ufficiale di tale status, quindi anche a coloro il cui status non sia stato ancora determinato, e deve essere rispettato in alto mare, giacché in tale zona gli Stati non sono esenti dai propri obblighi giuridici, ivi compresi quelli derivanti dal diritto internazionale disciplinate i diritti dell’uomo e dei rifugiati.
Il principio del non respingimento, come anticipato, è strettamente connesso al diritto di asilo, forma di protezione sancita a livello internazionale dall’art. 14 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il quale prevede che ogni individuo abbia il diritto di cercare e di godere in altri Paesi asilo dalle persecuzioni. Tale situazione giuridica soggettiva è considerata rientrante nel diritto internazionale consuetudinario e come tale vincolante per tutti gli Stati.
Quanto all’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che sancisce il divieto di tortura e di trattamenti crudeli, inumani e degradanti, si rileva che lo stesso viene in rilievo, in combinato disposto con l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, nelle ipotesi in cui, in seguito ad un respingimento, le persone coinvolte corrano il rischio di subire torture o trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
Come statuito dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, da ultimo nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, la disposizione richiamata impone agli Stati l’obbligo di non allontanare una persona quando la stessa, nel Paese di destinazione, corra il rischio reale di essere sottoposto ai trattamenti ivi richiamati, onerando lo Stato di verificare che il Paese di destinazione offra garanzie in tal senso. Nella citata pronuncia della Corte Europea dei diritti dell’uomo, inoltre, viene precisato che, a fronte di una situazione di sistematico mancato rispetto dei diritti umani, gli Stati hanno l’obbligo di informarsi sul trattamento al quale i soggetti respinti sarebbero esposti in seguito ad eventuale respingimento, senza che la mancata richiesta di asilo possa valere a dispensare lo Stato dai suoi obblighi. In altri termini, la circostanza che non venga espressamente avanzata una richiesta di protezione non consente allo Stato di ignorare che l’eventuale respingimento possa esporre i soggetti respinti a trattamenti crudeli, inumani e degradanti.
Infine, in merito all’art. 4 del Protocollo 4 addizionale alla CEDU, il quale prevede il divieto di espulsione collettiva degli stranieri, si rileva che nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, la Corte Europea dei diritti dell’uomo si è occupata per la prima volta dell’applicabilità di tale disposizione nelle situazioni in cui l’allontanamento degli stranieri avvenga fuori dal territorio nazionale e in particolare in alto mare, dando una risposta positiva al quesito ermeneutico. La ratio della norma, rinvenibile nella volontà di evitare che gli Stati possano allontanare un certo numero di stranieri senza esaminare la loro situazione personale, è stata posta a fondamento della decisione. Alla luce della normativa esaminata, pertanto, si ritiene che laddove le autorità di uno Stato intercettino in alto mare dei migranti sorga in capo alle stesse l’obbligo di esaminare la situazione personale di ciascuno e di non attuare il respingimento dei rifugiati verso un territorio in cui la loro vita o la loro libertà sarebbero minacciate e in cui essi rischierebbe la persecuzione, con la precisazione che la mancata richiesta di asilo non consente di ignorare che in taluni Paesi sia riscontrabile una situazione di sistematico mancato rispetto dei diritti umani.
A tal proposito assume rilevanza la circostanza che al momento della commissione dei fatti contestati erano già stati diffusi dei rapporti realizzati da accreditate organizzazioni internazionali nei quali venivano denunciate e condannate le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia. Tra tali rapporti figurano (come evidenziato anche nella richiamata sentenza della Corte EDU) i seguenti: “Stemming the Flow: abuses against migrants, asylum seekers and refugees” dello Human Rights Watch (settembre 2006), “Osservazioni finali Jamahiriya arabo-libica” del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite (15 novembre 2007), “Libia – Rapporto 2008 di Amnesty International” di Amnesty International (28 maggio 2008), “Lybia Rights at Risk” dello Human Rights Watch (2 settembre 2008) e “Rapporto relativo ai diritti dell’uomo in Libia” del Dipartimento di Stato americano (4 aprile 2010).
Conseguentemente, le autorità italiane erano nelle condizioni di sapere che la Libia, Stato che non ha ratificato la Convenzione di Ginevra e nel quale non è previsto un sistema nazionale di asilo, non potesse considerarsi, all’epoca dei fatti di causa, approdo sicuro, con concreto rischio che i migranti venissero arrestati, sottoposti a violenze, nonché respinti verso l’Eritrea. Si rende opportuno, inoltre, precisare che anche con riferimento a tale ultimo Stato erano già stati diffusi diversi rapporti nei quali venivano denunciate le violazioni dei diritti fondamentali ivi perpetrate. Si trattava di sistematiche violazioni dei diritti dell’uomo ad opera del governo eritreo ed in particolare torture, arresti arbitrari, condizioni detentive disumane, lavori forzati e gravi restrizioni alla libertà di movimento, di espressione e di culto. Tra i suddetti rapporti (come evidenziato anche nella richiamata sentenza della Corte EDU) si richiamano: “Eligibility guidelines for assessing the international protection needs of asylumseekers from Eritrea” dell’HCR (aprile 2009), “Report 2009, Eritrea” di Amnesty International (28 maggio 2009), “Service for life, state repression and indefinite conscription in Eritrea dello Human Rights Watch (aprile 2009). In questo contesto normativo e fattuale si inseriscono le disposizioni richiamate dalle Autorità convenute ed in particolare l’accordo internazionale stipulato tra l’Italia e la Libia.
Occorre puntualizzare sin da subito che, pur ammettendo che un simile accordo preveda espressamente il respingimento in Libia dei migranti intercettati in alto mare (dato non desumibile dalla lettura del testo che non contiene alcun riferimento espresso ai respingimenti), la sua vigenza non poteva esonerare l’Italia dal rispettare gli obblighi assunti per la ratifica di strumenti internazionali. In altri termini, l’Italia non poteva ritenersi esente da responsabilità invocando obblighi eventualmente derivanti da accordi bilaterali stipulati con la Libia, da ritenersi recessivi rispetto alle fonti costituzionali e sovranazionali richiamate, primi tra tutte l’art. 10 della Costituzione e gli artt. 18 e 19 della Carta di Nizza. A ciò si aggiunga che il Trattato di Amicizia, partenariato e collaborazione firmato a Bengasi il 30 agosto 2008 tra l’Italia e la Libia non solo non disciplina le operazioni di respingimento ma enuncia espressamente all’art. 1 il rispetto della legalità internazionale, mediante il rinvio agli obblighi derivanti dai principi e dalle norme del Diritto Internazionale universalmente riconosciuti e a quelli inerenti al rispetto dell’Ordinamento Internazionale. Pertanto, alla luce di tutte le considerazioni effettuate, si ritiene che la condotta delle autorità italiane sia stata posta in essere in contrasto con gli obblighi di diritto interno (di rango costituzionale) e internazionale gravanti sull’Italia e sia conseguentemente connotata dal crisma dell’antigiuridicità, con conseguente illegittimità della condotta contestata.
A conferma di tale assunto si rileva che nella richiamata sentenza del 23 febbraio 2012, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia al risarcimento del danno subito da un gruppo di migranti somali ed eritrei in conseguenza di una condotta che presenta elementi di similitudine con quella posta in essere nel caso di specie, trattandosi di un salvataggio avvenuto il 6 maggio 2009 a 35 miglia marine a sud di Lampedusa (nella zona di responsabilità SAR di Malta) ad opera della Guardia di Finanza e della Guardia Costiera italiane, seguito da una consegna dei migranti alle autorità libiche realizzata senza che fosse stata offerta agli stessi la possibilità di formulare istanza di protezione internazionale.Accertata l’antigiuridicità della condotta posta in essere, si rende opportuno precisare che, come sopra detto, l’esistenza di rapporti realizzati da organizzazioni internazionali, pubblicati e diffusi all’epoca dei fatti, fa ritenere che le autorità italiane erano a conoscenza o quantomeno avrebbero potuto essere a conoscenza della circostanza che la Libia non poteva essere ritenuto un approdo sicuro.
Conseguentemente, si ritiene che la condotta contestata non sia incolpevole e sia stata sorretta dall’elemento soggettivo (dolo o colpa) richiesto dall’art. 2043 c.c. ai fini della configurazione della responsabilità da fatto illecito. Sul punto, occorre richiamare quanto al danno causalmente correlabile alla condotta accertata, i principi affermati dalla sentenza delle SS.UU. della Corte di Cassazione 11 novembre 2008, n.26972, che ha ricondotto nell’ambito della categoria dei danni non patrimoniali tutti i danni risarcibili non aventi contenuto economico, in base al combinato disposto degli artt.2043 e 2059 c.c., riconoscendo il diritto al risarcimento qualora il fatto illecito abbia violato in modo grave diritti inviolabili della persona, in quanto tali oggetto di tutela costituzionale, quali nel caso di specie il diritto a proporre domanda di protezione internazionale.
Accertata la presenza di condotta violativa di diritti fondamentali, il conseguente danno non patrimoniale deve essere sempre allegato e provato da chi ne pretende il risarcimento e la prova può essere data con ogni mezzo. Al riguardo va chiarito che attenendo il pregiudizio non patrimoniale alla sfera immateriale, “il ricorso alla prova presuntiva potrebbe essere destinato ad assumere particolare rilievo ed anche costituire l’unica fonte su cui basare il convincimento del giudice, a condizione tuttavia che il danneggiato alleghi tutti gli elementi che nella concreta fattispecie siano idonei a fornire la serie concatenata dei fatti noti che secondo il principio di regolarità causale, consentano di dedurre le conseguenze derivatene” (cfr. Cass. n.26972/2008 citata e da ultimo Cass. 11059/2009). Alla luce di tale interpretazione giurisprudenziale dei principi in tema di onere della prova, nel caso concreto parte ricorrente ha allegato una serie di voci di danno non patrimoniale, qualificate come danno per le sofferenze patite, e per i rischi a beni interessi di rango costituzionale (salute, incolumità psico fisica, libertà personale) subiti a causa del respingimento in Paese non sicuro.
Premesso che, come affermato dai più recenti arresti della Corte Suprema a seguito della richiamata sentenza Cass. SSUU n. 26972/2008, il danno non patrimoniale, determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica, costituisce una categoria unitaria, non suscettibile di divisione in sottocategorie, laddove il riferimento ai vari aspetti del pregiudizio diversamente qualificati (danno morale, danno biologico, danno esistenziale, da perdita del rapporto parentale, etc.) risponde ad esigenze meramente descrittive delle possibili configurazioni che il pregiudizio può assumere senza minarne l’essenza ontologicamente unitaria, costituisce compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio dedotto sul piano non patrimoniale individuando, sulla base delle allegazioni svolte, quali ripercussioni negative si siano in concreto verificate sulla persona che assume la lesione, a prescindere dal nome loro attribuito. Su questo assunto si fonda l’affermazione resa dalla citata sentenza a Sezioni Unite secondo cui il danno non patrimoniale, sia che consegua a fattispecie di reato, sia che sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce “danno-conseguenza” che come tale deve essere allegato e provato. Affermazione questa che consente di rilevare come nella fattispecie in esame le allegazioni indicate nell’atto introduttivo (lesione del diritto a richiedere il riconoscimento della protezione internazionale, eziologicamente connesso alla condotta di respingimento, e dal pregiudizio subito dagli odierni attori in seguito al forzato arrivo in Libia), possono essere valutate secondo l’id quod plerumque accidit; applicando il principio presuntivo, infatti, deve desumersi l’esistenza di un danno derivante agli attori per essere stati respinti in paese non sicuro, quale la Libia, nel quale risulta provato (cfr. dichiarazione dei testi) che sono stati incarcerati subendo violenze e torture.
Nel caso concreto deve essere liquidato il danno non patrimoniale derivante dall’illecito, con criterio equitativo. Gli attori, dopo aver proposto la ricostruzione dei fatti accolta in questa sede, hanno domandato la condanna delle Amministrazioni convenute al pagamento di 30.000 euro per ciascuno ovvero alla somma maggiore o minore ritenuta di giustizia, a titolo di risarcimento per equivalente. Nella valutazione equitativa del danno subito sembra assumere rilievo la circostanza che, nel citato caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo abbia condannato lo Stato italiano a versare ai ricorrenti 15.000 euro ciascuno a titolo di riparazione del danno, in una situazione analoga a quella oggetto del presente giudizio. Tale importo è da considerare equo.
Date tali premesse in accoglimento della domanda degli attori si stima equo liquidare il danno non patrimoniale in misura pari ad € 15.000,00 ciascuno, somma già attualizzata e sulla quale decorreranno gli interessi legali dalla emissione della presente decisione all’effettivo soddisfo. Quanto ai destinatari della condanna deve rilevarsi come all’esito del giudizio sia stato provato l’apporto causale alla verificazione dell’evento dannoso della sola Presidenza del Consiglio e del Ministero della Difesa (cui la Marina Militare fa capo). Risulta, infatti, accertato, secondo le allegazioni della stessa parte convenuta, che gli attori sono stati respinti in Libia in esecuzione di un accordo bilaterale Italia-Libia con conseguente responsabilità dello Stato Italiano per l’esecuzione della condotta contestata e condanna della Presidenza del Consiglio dei Ministri. Parimenti è emersa al responsabilità del Ministero della Difesa in quanto i respingimenti illegittimi sono stati materialmente realizzati da appartenenti alla Marina Militare. Nessuna responsabilità è stata accertata in capo al Ministero dell’Interno e del Ministero degli Esteri. Pertanto devono essere condannati, in solido, a rifondere i danni sopra quantificati la Presidenza del Consiglio dei Ministri e il Ministero della Difesa, mentre con riferimento al Ministero degli Esteri e dell’Interno la domanda non può essere accolta.
Sulla condanna delle Amministrazioni convenute all’adozione degli atti necessari a consentire l’accesso in Italia degli attori, al fine di presentare domanda di protezione internazionale Gli attori hanno, altresì, domandato, a titolo di risarcimento in forma specifica, la condanna delle Amministrazioni convenute all’emanazione degli atti ritenuti necessari a consentire il loro ingresso nel territorio italiano, al fine di presentare la domanda di protezione internazionale. In particolare, gli stessi hanno esposto, nelle comparse conclusionali, la necessità di disporre il proprio ingresso sul territorio dello Stato con visto umanitario ai sensi dell’art. 25 del regolamento CE 810/2009 (codice visti), rappresentando che tale misura risulta essere l’unica idonea a rimuovere gli effetti nocivi della condotta illecita subita. Le Amministrazioni convenute hanno contestato la fondatezza di tale domanda, ritenendo logicamente e materialmente impossibile il risarcimento in forma specifica, inteso come rimessione in pristino della situazione precedente alla condotta contestata. A tal proposito è stato rilevato che al momento della commissione del fatto gli attori non si trovavano in territorio italiano ma in acque internazionali e che gli stessi, una volta saliti a bordo dell’imbarcazione italiana, non avrebbero conseguito automaticamente la protezione internazionale né avrebbero formulato una richiesta in tal senso.
Quanto a tale ultima allegazione, la stessa è stata smentita dalle dichiarazioni dei testi omissis che presenti sulla nave della Marina Militare al momento del recupero dei migranti dalle acque internazionali, hanno dichiarato come tutti i naufraghi avessero dal primo contatto con i militari italiani richiesto espressamente di voler presentare richiesta di asilo o di protezione, qualificandosi come rifugiati provenienti dall’Eritrea, Paese dilaniato da luogo conflitto armato.
Nel merito, e quale riflessione preliminare, la pretesa formulata dagli attori non può essere qualificata in termini di domanda di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058 c.c., in quanto rientra nella nozione di risarcimento in forma specifica il rimedio consistente nella eliminazione materiale del danno mediante il ripristino della situazione anteriore all’illecito. Da ciò discende che la domanda diretta ad ottenere la condanna delle amministrazioni competenti all’adozione dei provvedimenti idonei a consentire agli odierni attori di accedere nel territorio dello Stato, non possa essere qualificata come domanda di risarcimento in forma specifica, ma debba essere qualificata quale domanda di accertamento del diritto ad inoltrare domanda di protezione internazionale. Non coglie nel segno la difesa delle Amministrazioni convenute, relativa alla impossibilità di consentire un ingresso degli attori sul territorio nazionale, argomentando tale assunto sulla base della natura internazionale delle acque nelle quali sono avvenuti i fatti contestati. In seguito al salvataggio compiuto dalla Marina Militare, infatti, i naufraghi sono stati trasportati su un’imbarcazione battente bandiera italiana, in quanto tale qualificabile come facente parte del territorio italiano ai sensi dell’art. 4 codice della navigazione.
Tanto premesso, qualificata la domanda nei termini di domanda di accertamento del diritto a presentare domanda di protezione internazionale, si ritiene che non possa essere applicato l’art. 25 del regolamento visti essendo inibita al giudice adito l’adozione di una pronuncia di condanna dell’amministrazione ad un facere, consistente nell’emissione degli atti necessari a consentire l’ingresso degli odierni attori nel territorio italiano. Ciò in quanto il principio della separazione dei poteri dello Stato e la disciplina dei rapporti tra amministrazione e autorità giudiziaria dallo stesso derivante non consentono al giudice ordinario di sostituirsi all’amministrazione nella valutazione dei presupposti per il rilascio di provvedimenti amministrativi che legittimano l’accesso nel territorio nazionale, anche se gli stessi risultino propedeutici alla presentazione di una domanda di protezione internazionale. Gli attori hanno lamentato la lesione del diritto a proporre domanda di riconoscimento della protezione internazionale e chiesto di poter accedere nel territorio italiano affinché venga riconosciuto tale diritto.
La base normativa di tale forma di tutela deve essere individuate nell’art. 10, comma 3, Cost., in virtù del quale “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Al diritto d’asilo è stata attribuita dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (a partire dall’ordinanza n. 19393 del 2009, fino a – tra gli altri – S.U. n. 5059/2017, S.U. 30658/2018, S.U. n. 32045/2018, S.U. n. 32177/2018) la qualificazione giuridica di diritto soggettivo perfetto, appartenente al catalogo dei diritti umani e avente derivazione sia costituzionale che convenzionale.
L’art. 10, comma 3, Cost. ha trovato attuazione e regolazione mediante la previsione dei tre istituti dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del diritto al rilascio del permesso umanitario, (forma di protezione abrogata con il d.l. n. 113/2018, convertito dalla l. n. 132/2018). Tali forme di protezione trovano disciplina nel d.lgs. n. 251/2007, adottato in recepimento della direttiva 2004/83/CE del Consiglio (c.d. direttiva qualifiche) e modificato dal d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 18, attuativo della successiva direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio; nel d.lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, adottato in recepimento della direttiva 2005/85/CE del Consiglio (c.d. direttiva procedure) e modificato dal d.lgs. 18 agosto 2015, n. 142, attuativo delle successive direttive 2013/33/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, e 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio; nell’art. 5, comma 6, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (T.U.I.), abrogato dal d.l. n. 113 del 2018, unitamente alle altre fattispecie umanitarie già previste nel medesimo T.U.I. .
Come rilevato in più occasioni dalla Suprema Corte (Cass. Civ., sez. I, n. 28969/2019; Cass. Civ., sez. I, n. 26720/2019; Cass. Civ., sez. VI, n. 16362/2016; Cass. Civ. sez. VI, n. 10686/2012), l’esaustività della normativa citata determinerebbe l’assenza di un margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10, comma 3, Cost., il quale troverebbe pertanto applicazione solo nelle ipotesi disciplinate dalle disposizioni richiamate. Pur non intendendo negare la completezza del contesto normativo citato, si osserva che le disposizioni indicate possono trovare applicazione solo laddove siano concretamente attuabili ed effettivamente configurabili i presupposti per il riconoscimento di una delle forme di protezione internazionale ivi previste. Diversamente, laddove ciò non sia possibile, anche per ragioni non riconducibili alla sfera di dominio del richiedente protezione e del tutto indipendenti dalla sua condotta e dalla sua volontà, la normativa citata non potrà essere applicata. Rientra in tali situazioni quella in cui il richiedente protezione non si trovi sul territorio italiano e pertanto non possa presentare la domanda di protezione internazionale, la quale, ai sensi dell’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 25/2008 “è presentata personalmente dal richiedente presso l’ufficio di polizia di frontiera all’atto dell’ingresso nel territorio nazionale o presso l’ufficio della questura competente in base al luogo di dimora del richiedente”.
Si ritiene tuttavia che siano configurabili delle ipotesi che, pur essendo estranee al perimetro delineato dalla normativa richiamata, si rivelino meritevoli di tutela. Come di recente affermato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte il diritto alla protezione internazionale “è pieno e perfetto” e “il procedimento non incide affatto sull’insorgenza del diritto” che “nelle forme del procedimento è solo accertato…il diritto sorge quando si verifica la situazione di vulnerabilità”; “la situazione giuridica soggettiva dello straniero nei confronti del quale sussistano i presupposti per il riconoscimento della protezione umanitaria (ndr principio applicabile a tutte le forme di protezione) ha natura di diritto soggettivo…esso non è pertanto degradabile a interesse legittimo per effetto di valutazioni discrezionali affidate al potere amministrativo, in seno al relativo procedimento: all’autorità amministrativa è richiesto soltanto l’accertamento dei presupposti di fatto che danno luogo alla protezione umanitaria, nell’esercizio di mera discrezionalità tecnica, poiché il bilanciamento degli interesse e delle situazioni costituzionalmente tutelate è riservato al legislatore. Il procedimento amministrativo è si un atto necessario, ma pur sempre esprime, in base al modello generale, esercizio di attività vincolata, ricognitiva della sussistenza dei presupposti determinati dalla legge. …. Il diritto unionale, d’altronde sia pure con riferimento allo status di rifugiato, stabilisce (considerando 21 della direttiva n.2011/95) che il relativo riconoscimento è atto ricognitivo e che la conseguente qualità non dipende dal riconoscimento (Corte di Giustizia, Grande sezione, 14 maggio 2019, cause C-391/16, C.77/17 e C-78/18)” In conseguenza di tali statuizioni il Collegio della Suprema Corte ha affermato “Tutte le protezioni sono quindi ascrivibili all’area dei diritti fondamentali, sia quelle maggiori ….sia quella residuale e temporanea…e tutte le protezioni ….sono espressione del diritto di asilo costituzionale….Le condizioni che possono essere definite per legge, necessariamente conformi alle altre norme costituzionali e internazionali, allora, sono quelle chiamate a regolare il soggiorno dell’esule, la definizione dei criteri di accertamento e le modalità del relativo procedimento di accertamento. Di qui la coerenza del consolidato orientamento della giurisprudenza di queste Sezioni Unite….che relegano la discrezionalità, anche del legislatore, al solo accertamento e all’individuazione delle modalità di esercizio del diritto” (Cass. S.U. n. 29460 del 24.9.2019).
Compiute tali premesse qualora, come nel caso di specie, un richiedente protezione internazionale non possa presentare la relativa domanda, in quanto non presente sul territorio italiano per circostanze allo stesso non imputabili ed anzi riconducibili ad un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, non appare conforme ai principi sopra richiamati limitare il diritto pieno e perfetto a richiedere protezione. Oltre a risultare irragionevole, non riconoscere il diritto indicato si porrebbe in contrasto con l’art. 10, comma 3, Cost. e si configurerebbe come un vuoto di tutela inammissibile, in un sistema che, a più livelli, riconosce e garantisce il diritto di asilo nelle diverse declinazioni. In altri termini, si ritiene che la qualificazione del diritto di asilo quale diritto soggettivo perfetto, rientrante nel catalogo dei diritti umani e di derivazione non solo costituzionale ma anche convenzionale imponga di individuare una forma di protezione in quei casi che, pur non rientrando nell’ambito applicativo della normativa nazionale di attuazione dell’art. 10 Cost., risultino meritevoli di tutela.
Si ritiene che in questo ambito possa espandersi il campo di applicazione della protezione internazionale mediante una diretta applicazione dell’art. 10, comma 3, Cost., volta a tutelare la posizione di chi, in conseguenza di un fatto illecito commesso dall’autorità italiana, si trovi nell’impossibilità di presentare la domanda di protezione internazionale in quanto non presente nel territorio dello Stato, avendo le autorità dello stesso Stato inibito l’ingresso, all’esito di un respingimento collettivo, in violazione di principi costituzionali e della Carta dei Diritti dell’Unione Europea. Alla luce delle considerazioni effettuate, si ritiene che il diritto di asilo di cui all’art. 10, comma 3, Cost. possa essere declinato nei termini di diritto di accedere nel territorio dello Stato al fine di essere ammesso alla procedura di riconoscimento della protezione internazionale (in questi termini anche Cass. Civ., sez. I, n. 25028/2005) e che in tale sede possa essere poi accertata la titolarità della situazione giuridica soggettiva in capo agli odierni attori.
L’accertamento del diritto di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale è disposto anche alla luce del fatto che, come si legge nel rapporto 2019 dello Human Rights Watch (https://www.hrw.org/world-report/2019/country-chapters/eritrea), in Eritrea sono ancora commesse da parte del Governo gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani. Il riferimento è in particolare ad arresti arbitrari, condizioni detentive disumane, lavori forzati, torture, restrizioni delle libertà di espressione e di culto, che non sono cessati nonostante l’accordo di pace concluso con l’Etiopia. Accertato il diritto degli attori di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale, le conseguenti determinazioni circa modalità per consentire l’ingresso e per determinare la procedura di riconoscimento della protezione internazionale sono rimesse all’autorità competente, che potrà individuare, nell’esercizio della propria discrezionalità, gli strumenti più idonei a tutelare le ragioni degli odierni attori (tra i quali la concessione del visto di cui all’art. 25 del regolamento CE 810/2009 c.d. codice visti, non essendo di ostacolo la mancanza di documenti validi stante l’individuazione degli attori operata all’esito del presente giudizio, ovvero la concessione della protezione speciale di cui all’art. 32, comma 3, d.lgs. 25/2008).
Per quanto esposto deve essere accolta la domanda degli attori di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare la domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale, secondo le forme che verranno individuate dalla competente autorità amministrativa.
Spese di giudizio
Le spese di giudizio devono essere compensate in considerazione della novità della materia trattata.
P.Q.M.
Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, in persona del Giudice dott.ssa Monica Velletti, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta, così provvede:
1) accoglie la domanda proposta da omissis nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, e del Ministero della Difesa, in persona del Ministro della Difesa pro tempore, con conseguente condanna in solido al risarcimento dei danni non patrimoniali in favore degli attori, che si liquidano in euro € 15.000,00 per ciascun attore, oltre interessi al tasso legale dalla data della presente pronuncia fino a quella dell’effettivo soddisfo; 2) rigetta la domanda di risarcimento del danno proposta nei confronti del Ministero dell’Interno e del Ministero degli Esteri;
3) accerta il diritto degli attori di accedere nel territorio italiano allo scopo di presentare domanda di riconoscimento della protezione internazionale ovvero di protezione speciale, secondo le forme che verranno individuate dalla competente autorità amministrativa;
4) compensa tra le parti le spese di giudizio.
Cosi deciso in data 14 novembre 2019
Il Giudice dr.ssa Monica Velletti
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