Un primo commento all’art. 110-bis del c.d. Decreto rilancio
Una enfasi propagandistica e una gigantesca mistificazione accompagnano la discussione sulla “regolarizzazione” dei lavoratori nei settori di attività agricola, di assistenza e cura alla persona e del lavoro domestico, prevista dall’art. 110-bis del Decreto c.d. “Rilancio”.
Il fine precisato nella rubrica della norma di “Emersione di rapporti di lavoro” è però contraddetto e appare comunque inadeguato negli oltre 21 commi del farraginoso articolo.
Innanzitutto: e per tutti gli altri settori di produzione di beni e servizi rimane il lavoro nero? Chiariamo subito che il lavoro “in nero” è illegale e le sua enorme diffusione inquina l’attività economica creando concorrenza sleale verso gli imprenditori corretti, danneggia lo Stato per la totale evasione fiscale e contributiva, comporta lo sfruttamento dei lavoratori e favorisce l’infiltrazione della criminalità: dunque minaccia lo stato di diritto e la democrazia.
Non si comprende allora perché una iniziativa per la legalità nel mondo del lavoro sia “parziale” ed addirittura per un tempo “breve” (sei mesi). E dopo? Bentornate: illegalità, invisibilità, sfruttamento, criminalità organizzata, violazione della dignità dei lavoratori!
La gigantesca mistificazione risiede innanzitutto nel riferimento alla lotta al “caporalato”, così banalizzando e minimizzando l’importante Legge 29.10.2016, n. 199 che punisce anche penalmente (con l’introduzione dell’art. 603-bis c.p.) «la intermediazione illecita e lo sfruttamento del lavoro»: che si riferisce dunque a tutta la attività economica di produzione di beni e servizi.
La legge prevede altresì (art. 3) incisivi interventi di «controllo giudiziario dell’azienda e rimozione delle condizioni di sfruttamento».
Ma, ed è l’aspetto più importante volutamente ignorato dalla propaganda a reti unificate: punisce non solo chi “recluta” manodopera (nell’agricoltura è denominato “caporale”) bensì anche chi la utilizza e la sfrutta!
Si tratta quindi di un fenomeno vietato e punito, in via generale, e la tutela è apprestata, continuativamente e non “a termine”, per tutte le persone che lavorano, ovvero gialli, bianchi, neri, italiani, comunitari ed extra.
Il riferimento della Ministra Bellanova, a reti e giornali unificati, al solo caporalato è fuorviante e propagandistico perché nasconde i veri responsabili della diffusa illegalità e sfruttamento: gli agrari senza scrupoli.
Prima del malriuscito tentativo di lacrimucce, un mese fa sosteneva le stesse cose che una parte dei pentastellati, da ultimi, hanno affermato per contrastare la regolarizzazione: ossia che nei campi dovessero andarci “coloro che prendono sussidi pubblici” (Naspi, reddito di cittadinanza, addirittura Cig).
Di qui, è seguita l’obiezione che ciò è in parte già previsto per chi percepisce il reddito di cittadinanza e che per gli altri (a parte i profili di incostituzionalità del “lavoro forzato”) era semplicemente velleitario. Per un qualunque percettore di Naspi e lavoratore in Cig occorre:
– trasportarlo nei campi;
– lì allestire spogliatoi, docce, mensa e persino alloggi se troppo costoso e faticoso è il viaggio di andata e ritorno;
– sottoporlo a formazione perché la filiera agricola non si esaurisce con la raccolta, ma continua con nuove produzioni;
– dotarlo di apposita patente per i mezzi agricoli il cui utilizzo è assai diffuso.
Infatti gli stessi agricoltori hanno obiettato che ci sono tanti gialli, neri, bianchi in prossimità dei campi, anche senza troppe pretese igieniche e particolari diritti pronti all’utilizzo.
La pressione di centinaia di associazioni, anche di giuristi, ha fatto cambiare idea anche alla ministra Bellanova.
Le sue reboanti dichiarazioni secondo cui “lo Stato è più forte del caporalato” omettono però di rilevare che “qualcuno” chiede agli autisti/caporali di reclutare manodopera; quel “qualcuno” dà loro indicazioni sul numero, direttive per l’attività e orari per i lavoratori; infine quel “qualcuno” li sfrutta nei campi a tre euro l’ora e senza contributi e Irpef.
L’errore della “emersione”, prevista nel d.l. “Rilancio”, è dunque nella parzialità, nella temporaneità e persino, al comma 7.b, nella «inammissibilità» della regolarizzazione per il datore di lavoro condannato per intermediazione illecita e sfruttamento, che è un vero controsenso: la legge 199/2016, all’art. 3, prevede proprio la… ”regolarizzazione” come ulteriore sanzione.
Purtroppo anche questa “emersione” a tempo, come le altre periodiche, non risolvono il problema, ma lo ripropongono per il futuro: e una seria, matura, e generale soluzione sta in questa semplice proposta della associazione “Comma 2 – Lavoro è Dignità”:
«1. In sede di regolarizzazione per via giudiziaria o amministrativa di prestazioni lavorative non precedentemente denunciate dal datore di lavoro, si presume l’esistenza di un rapporto lavorativo subordinato a tempo pieno fin dal momento della prima prestazione accertata.
- Il lavoratore il cui rapporto di lavoro sia stato regolarizzato ai sensi del comma che precede può essere licenziato, nel quinquennio successivo, solo per giusta causa e giustificato motivo soggettivo.
- I commi che precedono trovano applicazione anche quando il rapporto di lavoro irregolare sia intercorso con lavoratore extracomunitario non in possesso del permesso di soggiorno, e il lavoratore acquisisce il diritto al suo rilascio con validità non inferiore al periodo di garanzia di cui al secondo comma».
Quanto ai proclami e alle lacrime dei politici, se ne è già occupato, con la poesia “La sincerità ne li comizi”, Trilussa nel 1920: «…E lì rimise fora l’ideali, li schiavi, li tiranni, le catene, li re… e poi parlò di li principi sui: e allora pianse, pianse così bene che quasi ce rideva pure lui».
Pier Luigi Panici
Articolo già pubblicato nel sito dell’Associazione Nazionale Giuristi Democratici
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